Squilli di trombe, anzi no, ruggiti ti tigre! A pensarci bene neanche questo, visto che il ruggito che introduce la sigla, come confessato dallo stesso Riccardo Zara, autore del brano, apparteneva ad un leone! Proprio così. Era infatti l’unica soluzione che egli aveva trovato, cercando tra alcuni vinili contenenti rumori.
Il brano è famosissimo, il personaggio altrettanto, si può dire altrimenti della linea di basso? Lo vedremo alla fine, quando avremo ricomposto nostalgicamente il nostro puzzle di ricordi.
Il manga
Il manga risale alla fine degli anni ’60 e racconta una storia cupa e drammatica che intreccia le vicende di Naoto Dato con quelle di una casa di bambini orfani e con i loschi interessi di un’organizzazione criminale che va sotto il nome, celebre e risonante, di Tana delle Tigri. Fanno da filo conduttore gli incontri sul ring di puroresu (il wrestling giapponese), resi celebri in Italia in primo luogo dall’anime, giunto a noi prima del manga. La pubblicazione cartacea era classificata come shōnen sebbene il termine all’epoca conservasse una connotazione più precisa che al giorno d’oggi.
L’autore dei testi è Asaki Takamori, classe ’36, con lo pseudonimo di Ikki Kajiwara, mentre le illustrazioni sono di Naoki Tsuji. Il primo è lo stesso autore di “Arrivano i Superboys” (primo spokon manga a tema calcistico) e di “Rocky Joe”. Di Naoki Tsuji invece ho trovato poche informazioni se non che nacque nel 1935 e che sono noti pochi altri lavori rimasti inediti in Italia.
Spenderei due parole in più su Kajiwara, un personaggio quantomeno controverso. La figura dell’autore infatti, tra vicende giudiziarie, storie di droga, malavita, risse e rapine, non è certo tra le più limpide del panorama dei mangaka.
C’è da dire che il periodo vissuto durante la sua infanzia non fu certo felice per il Giappone. La Seconda Guerra Mondiale, gli inutili e crudeli eventi di Hiroshima e Nagasaki e la povertà del dopoguerra furono elementi che condizionarono pesantemente tutta la produzione culturale giapponese (non a caso, Tana delle Tigri ha sede sulle Alpi bavaresi, con forti richiami nazisti). Manga e anime non fecero eccezione. Scrivere manga fu per Kajiwara un modo di trasporre il suo senso di rivalsa verso una società che probabilmente con lui non fu né semplice né clemente.
Non è questo il luogo per complesse considerazioni sociali ma è bene capire quanto questa storia rappresenti il Giappone di quel periodo: la figura del supereroe, umano e non robotico o magico, è proprio il simbolo della capacità di un popolo di risollevarsi dalla scellerata violenza subita. Un popolo che si deve imporre (anche violentemente a sua volta) per far emergere la sua voce a gran forza e per recuperare i propri valori. Dall’umiliazione, dalla disperazione e dalla miseria (con una spiccata componente autobiografica) un uomo, simbolo di una rinascita potente come la tigre, si impone per aiutare sé stesso e i più deboli (qui rappresentati dagli orfanelli).
Come non pensare a De André e la sua “Via del Campo” seppur in un contesto diverso: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”…
La storia fu serializzata in Giappone tra il 1968 e il 1971, edita da Kōdansha, celebre casa dei primi del ‘900 e ancora oggi molto attiva. Il nome originale dell’opera è Taigā Masuku (Tiger Mask) e si compone di 14 tankōbon.
In Italia i volumetti furono 15 e uscirono tra il 2001 e il 2007 per SaldaPress con il titolo “L’Uomo Tigre”, fedele all’anime che era già conosciuto e popolare. La ripubblicazione ad opera di Planet Manga vide luce nel 2013.
Curiosità: come avrete già potuto notare, i manga vengono generalmente classificati in due modi. Il primo a seconda del target di riferimento, il secondo seguendo una più classica suddivisione per genere. Nel primo caso avremo la ripartizione in: kodomo (manga per bambini), shōjo (manga per ragazze adolescenti), shōnen (manga per ragazzi adolescenti), josei (manga per giovani donne maggiorenni) e seinen (manga per giovani uomini maggiorenni).
Questa categorizzazione ha dei precisi motivi legati alle vendite: esse vengono massimizzate cercando di disperde l’utenza il meno possibile. Chiaramente, dalla parte del lettore, non si è legati necessariamente a queste categorie e può capitare spesso che una ragazza legga con piacere storie shōnen o che un adulto legga storie destinate ad adolescenti (anche io ho letto shōjo e tutt’ora leggo anche shōnen). Il motivo è che le storie hanno frequentemente un contesto narrativo molto più ampio e profondo e possono coinvolgere ed appassionare chiunque.
L’altra suddivisione avviene per generi letterari ma avremo occasione di parlarne in articoli successivi!
L’anime
Qui le cose si fanno più complesse. Esistono infatti ben tre serie distinte. Innanzi tutto occorre dire che per l’anime non venne mantenuta la categoria shōnen ma si passò ad un target adulto.
La prima serie, Taigā Masuku (L’Uomo Tigre, il campione), iniziata nell’autunno del 1969 e terminata nella primavera del 1971, era composta da 105 episodi e ricalcava la trama del manga.
In Italia giunse, in anticipo sul fumetto, nel 1982 mantenendo i 105 episodi.
La seconda serie, Taigā Masuku Nisei (L’uomo Tigre II), andò in onda in Giappone per 33 episodi dal 20 aprile 1981 al 18 gennaio 1982. Narra fatti nuovi a 9 anni di distanza dalla conclusione della precedente serie. Non ha nesso con il manga ma dall’anime ne fu tratto comunque uno di scarso successo inedito in Italia.
In Italia fu trasmessa nel 1985. La trama era meno profonda rispetto alla prima serie e sebbene abbia avuto un discreto successo, non manifestò a mio avviso lo stesso valore socio-culturale.
La terza serie, Taigā Masuku Daburu (Tiger Mask W, dove i giapponesi leggono “double” la W), andò in onda in Giappone dal 1° ottobre 2016 al 1° luglio 2018. Si compone di 38 episodi e risulta al momento inedita in Italia. Essa racconta fatti che si svolgono a 40 anni di distanza dalle vicende di Naoto Dato, il primo protagonista. A differenza della seconda serie che appare piuttosto slegata dalla precedente (o quanto meno con minore forza narrativa), questa si propone come effettivo seguito della prima serie aprendo anche interessanti dubbi sul suo finale.
Nota: segnalo che durante la stesura del presente articolo è uscita una notizia molto interessante che riguarda una prossima realizzazione di un lungometraggio su Tiger Mask in una co-produzione italo-nipponica. Quale onore! Addirittura si vocifera di trilogia! Per chi volesse approfondire: https://www.hollywoodreporter.it/industry/mercati/l-uomo-tigre-fabula-pictures-de-angelis-tiger-mask/66644/
Le sigle originali
Tiger Mask – Nashio Kidano (testo), Shunsuke Kikuchi (musica) – Interpeti: Hiroshi Nitta (voce), Schoolmates – Sigla iniziale della prima serie del 1969
Minashigo No Ballad – Nashio Kidano (testo), Shunsuke Kikuchi (musica) – Interpeti: Hiroshi Nitta (voce), Schoolmates – Sigla finale della prima serie del 1969. Una straziante ballata per chitarra, armonica e voce.
Tiger Mask Nisei – Kōgo Hotomi (testo), Shunsuke Kikuchi (musica) – Interpreti: Ichirō Mizuki, Columbia Yurikagokai – Sigla iniziale della seconda serie del 1981 (bassisticamente più interessante delle precedenti).
Inochi O Kakete – Kogo Hotomi (testo), Shunsuke Kikuchi (musica) – Interpreti: Ichirō Mizuki, Kōrogi ’73 – Sigla finale della seconda serie del 1981
Ike! Tiger Mask – Shōnan No Kaze – Sigla iniziale della terza serie. Un moderno synth-elettro-metal (?!) serratissimo, sebbene il gruppo che l’ha scritta e interpretata nasca come gruppo reggae.
King of the wild – Shōnan No Kaze – Sigla finale della terza serie. Dalle stesse atmosfere della precedente.
La sigla italiana
Una e una sola. Tutti la conoscono attraverso le generazioni (non scordiamo che l’Uomo Tigre dopo la prima messa in onda è stato replicato per decenni!) e tutti la cantano con gli occhi che si illuminano dei propri ricordi.
Abbiamo parlato finora dei Rocking Horse/Superobots, di Tempera e Albertelli, di Mariano Detto, dei musicisti importanti che si nascondevano dietro pseudonimi a volte bizzarri ma qualcuno di fondamentale e determinante mancava ancora all’appello. Per la precisione Riccardo Zara.
Riccardo è il motore musicale di quelli che sono stati I Cavalieri del Re, gruppo di riferimento del genere sigla che per 5 anni di intensa attività (1981-1986) ha prodotto una quantità enorme di sigle. A Riccardo e al resto del gruppo dobbiamo circa quaranta sigle celebri e una serie illimitata di ricordi ad esse collegati. Sono incalcolabili le volte che ho visto apparire sul teleschermo la dicitura “la sigla…è cantata da I Cavalieri del Re” e da piccolino mi chiedevo: ma chi sono questi Cavalieri del Re? Che facce avranno? Ho dovuto aspettare diverso tempo per non immaginarli più!
Sebbene dietro l’Uomo Tigre ci siano i Cavalieri del Re al completo, la RCA italiana preferì non associare un anime sportivo al loro nome e accreditò il solo Riccardo Zara come autore e interprete. Ci sarebbe da discutere un po’ su quanto possa essere considerato “sportivo” l’Uomo Tigre ma questa è un’altra storia!
La sigla venne scritta, registrata, mixata e poi approvata dall’RCA tra l’11 gennaio 1982 e il 19 gennaio 1982. Tempi da record che dovevano sottostare alle fulminee richieste dei produttori Olimpio Petrossi e Anselmo Natalicchio. Come racconta Riccardo Zara, lo standard in quel periodo era una telefonata da Roma con una lettura al volo di una sinossi stringata senza aver visto nulla del cartone animato. Una vera impresa al buio che probabilmente costituiva anche la chiave per ottenere delle splendide sigle. Zara racconta che in questo modo poteva dare libero sfogo all’immaginazione e alla creatività, cosa che non sarebbe stata possibile se l’RCA avesse trasmesso troppi particolari. Questo invece avvenne in una certa misura con “Nero, cane di leva”, unico anime visto in anticipo e probabilmente una delle sigle di minor successo! Del resto, dai racconti di casa Zara, si narra che Jonathan, figlio di Riccardo e Clara Serina, vedendo il cartone animato disse subito che faceva schifo!
Anche nel caso dell’Uomo Tigre Riccardo racconta di non aver mai visto tutti gli episodi ma solo quelli iniziali e finali e solamente dopo aver ormai composto la sigla. Ricorda che la sinossi di questo anime gli ricordò il film l’Esorcista: l’uomo con l’impermeabile descritto gli ricordava proprio la locandina di quel film e il primo verso del brano “solitario nella notte ma se lo incontri gran paura fa” ha esattamente quell’ispirazione. Spiega inoltre come la voce del brano fu incisa la sera verso le 20, pensando di realizzare una traccia pilota senza particolari pressioni. Il giorno seguente provò a ricantarla ma dopo una rivalutazione tenne quella della sera prima che fu incisa su 45 giri. Come si dice? Buona la prima!
L’Uomo Tigre, lato B del 45 giri dove c’era anche la sigla “Angie” appartenente ad altri autori, fu utilizzata per entrambe le serie dell’anime andato in onda in Italia, sia come sigla iniziale che finale.
Alla batteria era accreditato Walter Scebran, che tra l’altro fu batterista per Mina, al basso Gino Panariello (di cui purtroppo non riesco a trovare notizie) e ai cori Clara e Guiomar Serina, rispettivamente moglie e cognata di Riccardo e membri dei Cavalieri del Re. Lo stesso Riccardo, oltre a cantare, scrivere il testo, comporre il brano e arrangiarlo, ha suonato chitarre e tastiere.
Se approfondiamo la figura di Riccardo, grazie alle numerose interviste rilasciate negli anni, apprendiamo come nel 1972 già lavorasse attivamente e scrisse il brano “Viaggio di un poeta” per i Dik Dik e che ebbe un successo enorme. Iniziò a scrivere sigle, sebbene odiasse dichiaratamente la musica per bambini, a fine anni ’70, dopo aver aperto insieme ad altri amici musicisti (tra cui Marcello Minerbi della Durium), un suo studio a Milano. A quel tempo, attraverso alcune conoscenze, una casa discografica gli propose di scrivere la sigla di “Rin Tin Tin”. Dapprima rifiutò dicendo che certe porcherie non le avrebbe mai scritte (!!!) ma poi, colpito nell’orgoglio dal produttore che lo provocò per spronarlo, accettò l’incarico, scrisse la sigla mentre era in tram, la sera la provò al pianoforte e il giorno dopo la incise e la portò in casa discografica per farla ascoltare. La canzone piacque, venne stampata su 45 giri per la Fonit Cetra ma non divenne mai la sigla del telefilm sebbene vendette in ogni caso numerose copie. Il gruppo “Cheyenne” che si legge in copertina era composto da Riccardo Zara e dai suoi amici Gianni Bobbio (basso e chitarre), Giulio del Santo (tastiera) e Walter Scebran (batteria). Sulla scia di quel successo la Fonit Cetra gli propose anche la sigla di “Lassie” (un altro cane!) che ebbe identica sorte discografica. Stavolta il gruppo accreditato come esecutore erano i “Boys Group” ma i musicisti erano gli stessi dei Cheyenne. Nel 1978 fu la volta di Woobinda, sigla per un telefilm di scarso successo, che superò in classifica anche Ufo Robot e finalmente accompagnò in televisione la messa in onda della serie. Anche questo brano fu eseguito dagli stessi musicisti accompagnati dal coro “Le Mele Verdi” di Mitzi Amoroso (che vedremo in futuro quanto celebre sarà per le sigle).
Purtroppo lo studio di Zara e dei suoi amici e collaboratori prese fuoco in quel periodo e con l’incendio si sgretolarono anche aspettative e buoni propositi generando sconforto in tutti loro. Sua moglie Clara non si perse d’animo e lo spronò fino a fargli aprire un nuovo studio personale, tutt’ora attivo: la Cascina Tre Effe Recording Studio. Fu per certi versi un vero nuovo inizio se non l’inizio con la “I” maiuscola…
Prendendo spunto da un articolo uscito su TV Sorrisi e Canzoni che pubblicizzava la futura messa in onda del cartone animato “Vicky il vichingo”, Clara spinse un pessimista Riccardo a scriverne la sigla. Portò lei la musicassetta con il provino alla Numero 1 (in passato etichetta di Mogol e Battisti e all’epoca filiale milanese della RCA Italiana) e dopo qualche tempo, inaspettatamente, ricevettero una telefonata da Roma dalla RCA. “Vicky il vichingo” nel frattempo era andato in onda ma gli chiesero se in 3 giorni fossero stati in grado di riscrivere il testo sulla stessa musica e con le stesse voci (cantò anche Clara), di registrare e mixare nuovamente il brano e farlo arrivare in casa discografica. Accettarono la sfida e fu così che vide la luce “La spada di King Arthur”. Olimpio Petrossi propose il nome de “I Cavalieri del Re” per il gruppo (ancora formato solo da Riccardo e Clara) e fu così che iniziò la loro breve ma intensa carriera.
Da qui in poi la storia di Riccardo Zara coincide per almeno 5 anni di duro lavoro con quella dei Cavalieri del Re. Una storia che quelli della mia età, la cosiddetta “Goldrake generation”, ha visto nascere, spegnersi e riaffacciarsi per poi diventare oggetto di culto! Avremo modo di tornare a parlare di questo meraviglioso gruppo in occasione di prossime trascrizioni.
Analisi del brano e della linea di basso
Di Gino Panariello, bassista accreditato come collaboratore dei Cavalieri del Re poco e niente sono riuscito a sapere. Anche Riccardo Zara suona il basso (è stato bassista di Bruno Lauzi) e in un primo momento sono stato quasi certo che la linea fosse sua ma probabilmente così non è.
Il brano si compone di 93 misure ed è integralmente in 4/4 con un’indicazione del metronomo di circa 108 alla semiminima. Il brano è in E maggiore e non presenta difficoltà tecniche particolari restando sempre piuttosto lineare. Inoltre il tempo è comodo e permette una certa rilassatezza nell’esecuzione.
Le chitarre sono discrete e la batteria lineare. Ogni tanto un ruggito qua e là, il clap delle mani portato in levare su tutto il ritornello, un esile pad di archi sempre sul ritornello, un sottofondo di un synth che pare quasi un didgeridoo aborigeno oltre a qualche altro effetto sparso sono i condimenti che impreziosiscono il pezzo.
La cosa che però a me piace di più è la tromba che accompagna la seconda parte dei ritornelli e che diventano due nelle ultime battute, elegantemente armonizzate. Oltre alla linea di basso ovviamente!
Il piccolo intro di tre misure, completo di ruggito, non prevede il basso che invece attacca sulla strofa, dalla quarta misura, muovendosi sulla scala pentatonica in E maggiore. La frase si ripete con intenzione simile sul successivo accordo di B maggiore.
Vorrei far notare che ho ascoltato moltissime esecuzioni online ma ritengo che nessuna sia corretta al 100%. Pochissimi eseguono correttamente la frase di pentatonica e la maggior parte suona un passaggio cromatico che ad un ascolto attento risulta inesistente sull’originale.
Il ritornello lavora su ottave spezzate ripetendo la stessa frase quattro volte con piccole variazioni su ognuna. La frase conclusiva presenta una variazione armonica che conduce ad un break di 3 misure, simile all’introduzione.
Anche in questo caso ho notato che la maggior parte delle esecuzioni visibili sul web non sono a mio avviso corrette. Quasi tutti eseguono il passaggio da A maggiore a E maggiore salendo in maniera cromatica (D – D# – E) ma in realtà l’ascesa secondo me è diatonica (C# D# E).
Da qui si ripete la strofa e di nuovo il ritornello, grosso modo con le stesse note. Dopo un break accorciato di una misura rispetto al precedente si ripete la frase del ritornello, leggermente variato, per due volte e si conclude in maniera simile ai precedenti chorus.
Riassumo la struttura del brano:
Intro-A-B-A-B-B1
Alcuni accorgimenti nell’esecuzione: credo sia giusto porre una particolare attenzione nel rispettare le pause nella strofa. La loro forza espressiva va evidenziata. Attenzione anche agli hammer-on e ai brevi slide a scendere, funzionali alla diteggiatura, tutto sempre all’interno della strofa.
Durante il ritornello le note all’ottava alta tendono ad essere eseguite sempre staccate a parte qualcuna ed essenzialmente per motivi di spostamento sulla tastiera. Si segnala però una sorta di “obbligato” stilistico a battuta 36 e 74 (le note sono pressoché tutte staccate, anche all’ottava bassa) che NON si ripete alla battuta 83.
Ultimi due appunti: attenzione alle note staccate durante la strofa perché sono utili a dare la corretta pulsazione al brano e notare le acciaccature sui break (eseguite ogni volta in posizione diversa!).
Il brano, nella sua semplicità, è piuttosto divertente da suonare ma più che la soddisfazione tecnica il piacere è tutto nel viversi la sigla come se fossimo di nuovo bambini, di fronte a quelle scene si violente ma dalla carica educativa indiretta così potente da arrivare ancora intatta ai giorni nostri.
Oggi penso di essermi dilungato un po’ troppo ma sia l’opera originale che la sigla e i suoi protagonisti meritavano tutta questa attenzione!
Alla prossima!